sciamàno posseduto da ogni démone e dio
ho attraversato l’impossibile
per sortilegi d’ombra in nettuniane
stagioni d’illusioni
questa terra lucana è anfiteatro
di memorietempli metafisici
architetture per amplessi con la bellezza
dall’alte cuspidi è orizzonte
sino al turchese Metaponto
dove la matematica Teano amò il maestro
Pitagora e il suo seme di numeri celesti
sibille nere ancora si dipanano
fili d’un bandolo misterico
qui si allontana l’albatros
“le bateau ivre” degli amori illusi
il superfluo splendore dei desideri
la suburra del cuore che diverge
bivi d’incontri
*
l’alba ruba le stelle ed i suoi occhi
Lucania imprendibile donna
selvaggia e austera
sempre perduta e ritrovata
in radiosi spasmi di luce
stoppie incensoamaro tra gli informi
valloni custodi del mio sangue
dove il viaggio ha mai inizio né fine
dandoti in pegno l’anima mi attendo
sull’orizzonte degli eventi la tua origine
il mio seme è da sempre nel tuo ventre
astrale figlio che chiuderà il cerchio
dei tuoi percorsi d’ombra
tra un battito di ciglia o mille vite
quando lussureggianti pianeti di memorie
traverseranno occhi contigui a un tempo
finalmente parallelo di sogni
*
gli amanti della scena sono un dono
concesso dalla ottusa onnipotenza
che si crogiola al sole delle sue regge
formicaio di cortigiani assenti
ad ogni conato della mente
questa lunga stagione di vampiri
ha un periplo che esclude questo sud
incastonato nel coraggio di vivere
l’inattuale
come sciamanico sogno che si attende
lo spirito dei dèmoni ad un varco
di bellezza per eliderli
questa mata di roccia è ancora un duro
ossequio ai suoi icastici lèmuri
che dalle infide ferite dei calanghi
ci eccitano umori sovrumani
nell’età verde indovinavo i segni
della sottile imperturbabile magia
Lucania odiatamata donna
cogiuolo d’incesti madre-amante
segni nella scia lunga dei boschi
e pietre brune dei castelli ancora densi
degli spiriti di torbide badesse e Federico
segni negli ancestrali
prognatìsmi contadini
e vene blu alla fronte dei normanni
e dei nati dai greci e longobardi
la màntica sequenza dei tuoi sismi
che divorano al ritmo
d’una cantata di riti alieni
nuove innocenze e tombe di guerrieri
segni del prisma della luce
cangiante ad ogni balzo della mente
e immaginavo le tue valli estreme
astroporti dove vennero a congiungersi
fratelli astrali
con spirali preistoriche d’attesa
qui dove il sacro e mito sono “mata”
e un contìnuum di sogni
l’allucinazione topografica
d’un’ipotetica invenzione letteraria
si esaurirebbe in uno sghignazzo
non ho trovato mai allitterazioni
con la tua seduzione in nessuna terra
dove il “mirabilis” s’è chiuso
nella fredda suppurazione di drammi urbani
seppellendo in un ricco languore
memorie doviziose
siamo tragici e comici
nuvole aristofanèe e dei euripidèi
cercandoci attraverso la tua follia sottile
mai una sola verità dell’esistere
ora ti scrivo come ad un’amante perduta
e ritrovata nello zaffiro dei desideri
in un pellegrinaggio agli orizzonti
del cosmo
dove radi viaggiatori si perdono
dopo esauste visioni di piramidi e maja
di barocchi ceselli e acuti stradivari
e d’ogni cosa creata dall’uomo
dopo sputi politici e commedie
di società servili all’egotismo
e amàche di delirio onniscente
abbrutito dal calcolo sola res mundi
radi viaggiatori si perdono
in un confino dove i guardiani della luce
aprono nuovi lucòri a vite d’immersioni
nei nostri labirinti
viaggiatori si perdono chiedendosi
perché la dolce severa Maratea
non ha santuari di sirene
perché le doriche Tavole Palatine
hanno una fiera alterezza più di mille
ville d’ “otium” romane
abbracciate ad altre coste superbe
viaggiatori si inerpicano
alle pendici del grande Pollino
alla ricerca del proprio mistero
e badie medievali ad annusarle
hanno l’odore fossile dei grandi abati
che meditavano i giochi di Dio
ai confini del mondo
come il “lucien leuwen” stendhaliano
Carlo Levi si chiedeva su un dirupo
scheggiato di capre “ed io?
tutto qui quel che ho vissuto?”
e l’immersione fu lo scarto d’amarti
mentre qualcuno fuori
bruciava l’universo
in quella spietatezza del suo “Eboli”
c’è solo un conto d’amnistia
del proprio sé per la scoperta audace
d’una superba verità in quella miseria
di contadini
nello scavo segreto dei tuoi occhi
antichi come la memoria dell’uomo
ho studiato ogni costellazione e galassie
nella metafisica dei tuoi silenzi
l’ampio respiro della terra
e il cuore degli umani
torbido come vene dei tuoi torrenti
limpido come le acque che dalla Camastra
seducono laghi di smeraldo puro
quale terra potrà vantare ventinove castellli
dono d’un solo imperatore invasato
dal tuo aspro ed opimo splendore
nessun filtro d’amore potè tanto
strega dai capelli di grano
ventre di muschio e piedi di zaffìro
*
con il mio daimon
visionario archeologo di spazi
ho attraversato quelle mura
contrade annidate in presepi di case
speroni levitanti in strabilio
d’architettura
su incubi dirupi e dominanti alture
sui due mari
storie incognite ancora
di tregende e glorie
scenografie da impallidire Amleto
e la fatale sua pazzia
congiure di baroni e fratricidi
dal Malconsiglio di Miglionico a Valsinni
dal fortilizio di Brienza a Moliterno
Cancellara sopita nella valle
nido d’aquila e d’imperio
del suo scosceso medievale artiglio
castello che muterebbe sorti
d’un’intera regione se non occultata
nel dedalo prezioso dei suoi secoli
Muro e l’abissale strapiombo
che dagli inferi guarda il suo maniero
disorientanti orizzonti che allontanano
troppi asceti dell’ovvio e di coerenti
prospettive dell’essere
*
che una rivoluzione del pensiero
si annidi nelle spore della nostra
atavica tristezza che ci dona
questa adunca ironia e obliquo riso
che spiazza ogni seriosa invadenza
del disperante che oggi avvolge il mondo?
un nostro guardiano della luce
guerriero d’ogni battaglia
sicario-medium di massacri e angelo
suggeritore di dèi celesti ed inferi
occhi d’ebano da arabo falconiere
federiciano
occhi di mare dei suoi figli svevi
occhi bacca di spino contadino
occhi di Pitagora ed Orazio
un nostro guardiano della luce
ai margini d’una spiaggia millenaria
con nelle mani carte inutili
giocando in un Settimo Sigillo
fregherebbe con un altro bluff la Morte
procrastinandosi all’infimo la vita
*
il silenzio di quest’onda pietrificata
sull’oceano notturno di Monteserico
annuncia l’ultima eclisse bacio estremo
che amanti sole-luna si attendono
cercandosi in perdizioni d’ellissi
so dove e quando gli erratici mostri
squarceranno crateri
in lava di seme nero
so dove e quando il re di Nostradamus
terrore di cuori amari farà un nido
e chi divorerà le sue ali-squame
nel giorno del sole nero
il mio méntore giovane quanto le piramidi
mi guida sulla croce stellata d’apocalisse
taurus scorpio aquarius leo
svelandoci dove onanismi magici si strepitano
e adoratori dell’assenza proni sempre
a un ridicolo epilogo si immergono
nell’Ade buia degli invisibili della terra
“perché non abbiamo quaggiù
una città stabile
ma andiamo in cerca di quella futura”
il Brahms dell’Eid deutsches requiem
sale alle guglie dei leoni gotici
scoprendo l’abbaglio solare dal mistero
e torna il viola-incenso dei pianori
il nuovo canto alare dei nibbi lucani
su prede raggelate dalla falsa notte
*
si portano i bei seni come osanna
ai loro padri austeri
queste figlie del vento
nella Lucania assorta di calanghi
arati da meteore stellari
il diluvio di nuvole
naviga l’arca del Vulture
verso comete aliene che verranno
quando sarà dissolto il giubileo
delle indulgenze ed il peccato
archeologia del cuore
il diluvio di nuvole
naviga l’arca del Vulture ai silenzi
d’una nuova creazione
dove occhi di turchese
siderali maestri del sogno
si giocheranno le nostre false innocenze
e la ignavia di attese costruite
su fulgori antichi di sassi neolitici
e il nitore torvo di cattedrali e badie
la nostra giovinezza seguiva piste di lupi
traversavano bianchi monasteri
chini su laghi-crateri
narcisi d’impudicizie macerate
nell’ombra di nere litanie
avremmo atteso invano
la rivoluzione degli ultimi figli
metafore consunte di antiche parole
i fratelli della mia Morra disperata
sono tornati dopo secoli intemperanti
a trafiggere ancora
l’incauto amante del poeta
*
la Brahmea rara farfalla notturna
predilige la lussuria acquatico-boschiva
dei laghi di Monticchio
brividi di ali nere sul dirupo
della bianca Badia
un San Michele affidato a Borromeo
tal cardinale manzoniano
l’abbazia S. Ippolito
ha solo ruderi possenti al lago grande
e la segreta grotta di Crocco
visibile simbiosi di briganti e santi
di lava ed acqua in metamòrfiche sinàpsi
forse il Vulture ha semenze ancora
di eruttivi sogni se nei suoi tramonti
congiura contro gli dei
nuovo Prometeo per donarci il fuoco
nel bing bang che ogni sera si rinnova
*
la medioevale Melfi già neolitica
romana e bizantina
prima contea normanna
Guglielmo d’Altavilla erse il Castello
dalle otto torri prediletta a sede
da Federico per le sue
“Costitutiones Augustales”
mai come allora l’anàfora
più irriducibile per secoli
del nostro isolamento è qui risolta
e ribaltata in una storia sconfinata
d’un medioevo dove la potenza
civile e religiosa era a convegno
nei manieri lucani
tiare di principi e di papi
curie romane scese nelle valli
d’oro del Vulture in percorsi
selvaggi di foreste e lupi
cortei di porpora per i Concilii
astuti intrighi di politici e diritto
qui ogni zolla pullulava
di cavalieri cortigiani e donne
altere sempre
madri di re o di contadini
custodi d’un ancestrale civiltà
sei volte compì in armi Federico
l’ ”iter italicum” sino alla Germania
con al seguito una corte sterminata
lasciati i margini della Conca d’Oro
e il palazzo a Palermo del suo regno
subì qui la ipnotica vertigine
della terra lucana come il raptus
che lo prendeva alla spirale ardita
dei suoi falchi sulla preda
era il sovrano
che comandava i falchi come gli uomini
illuminato nella pace religiosa
tra musulmani cristiani e ebrei
in tempi di avversioni più feroci
già in quel mille ebbe il concetto fermo
oggi ancora discusso
dell’evangelica separazione
tra Stato e Chiesa “date a Cesare
quel ch’è di Cesare”
tre volte ebbe scomunica
non eran lecite alla Chiesa tre corone
portate dove al centro era il Papato
in queste torri si bandì la prima
crociata agli infedeli
predicazione infida per l’editto
del celibato ai preti
qui Federico convenne dall’oriente
dalla sua breve crociata ai saracini
con una carovana di scomunicati
prelati e monache ossequienti
al solo suo carisma
vi fu più terra viva e laica?
la Porta Venosina ora conclude
percorsi delle mura ormai cadute
e s’apre al suo vulcano
come allora ai suoi cosmopoliti destini
*
a Lagopesole
sospeso nell’altura dei suoi sogni
il castello è un’isola-sarcofago di stelle
chiuso nel suo colore d’autunnale foglia
sospeso nell’abbraccio della valle
sente ancora il cavallo del suo principe
scalpitare alle segrete porte
scongiurata la sorte ormai preistorica
di bagnarsi i piedi in un lago di stupore
Carlo d’Angiò e Manfredi vi regnarono
in rabbrividenti cortili di congiure
e allucinati spazi di caccia
*
a Ripacandida tra le braccia del vulcano
la Sistina lucana in S. Donato
è d’un bimbo poeta che annullando
le sinopie ha reso storie
tra il gotico e l’autoctona purezza
d’un disincanto acerbo
tra i lapislazzuli di Michelangelo
*
a Venosa cercate il paleolitico
inferiore acheuleiano medio
parole sterili ai profani
prima d’Orazio e del Castello
la Chiesa Nuova è un’incompiuta incognita
misterica e assoluta come abbozzo
d’un Michelagnolo “prigione”
gli architravi nell’erba hanno sapore
di templi greci riattati su colonne
che per secoli respirarono la terra
le aperte volte affrescate dalle stelle
e nubi tra il mutante sole
si cantano storie per l’invidia
d’ogni pittore del cosmo
ogni sito ha una sua mistica sottesa
alla poesia res unica nel gorgo
di duci e santi
l’aragonese castello sorge
su un’antica cattedrale conciliando
il severo quadrato
con le massicce torri circolari
nelle navate della Chiesa Vecchia
dorme Abelarda moglie del Guiscardo
lontane da palazzi e da fontane
come la splendida Angioina
le Catacombe ebraiche
e le Paleocristiane dai tufi incisi
nella sua storia di giuristi illustri
di scienziati e poeti qui si avverte
la cultura osannata
dai principi Gesualdo
traversando l’abisso tra l’arte
e amore che la minaccia
il principe Gesualdo genio uxoricida
si espanse le sue voci in madrigali
di trame-lacerazioni quasi eros incompiuto
che gusta l’attesa d’un’inferno
amato da Mahler e Stravinskij
per estrema sublimazione aritmica
e arditezze univoche dei “modi”
famoso per dolenza il pentagramma
è invece il tracimare lento
d’un’onda anomala sul quieto mare
dei nostri inconsci disperati
*
Banzi il fulgore svevo-normanno
decapitato da faide francescane
e ataviche ricchezze baronali
la Krjotissa lignea e gli affreschi
benedettini alla Badia
stigma e fulcro di tutta la regione
un iter lungo di papali bolle
e manoscritti della sua potenza
e l’escursione poetica delle Odi
oraziane sulla sua Fons Bandusiae
tra i filari a vigneto e le alte canne
flauti del vento tra i crinali
*
e il vento qui sovrano s’alza
improvviso
orgasmico pensiero d’un dio folle
Genzano è sempre un’Itaca
delle mie vele corrotte a dolci approdi
come l’ultima estate
nel vallone dei greci a Capodacqua
l’alba nella voragine turchese
salendo gli occhi sui dirupi
dell’Annunciata e Convento everest sacri
di macerie ed archi di antiche clarisse
l’indaco spossato della notte
si abbandona nella nuova luce
ed acqua sorgiva diluiva i miei colori
d’affresco per l’icona bizantina
poi la leggenda degli occhi del bambino
extraterrestre che le sterili
donne si fascinava per indurle gravide
l’antica Gentius ancora scende
dai tre valloni butterati in grotte
umide d’aglianico
il maniero normanno ha il cuore
nel monastero trecentesco di Sancia
roccaforte longobarda
poi normanna e sveva
vede lontano tra le macerie tozze
del Monteserico castello
i roghi e l’urlo di battaglie
tra Annibale e Marcello
tra Spartaco e i romani
tra bizantini e normanni
il basso baluardo di Murge
cornicia la grande piana
che dorme sull’orlo di spighe
dove orizzonti di terra si fingono cielo
e la medusa dei desideri
di sera si raccoglie sul sentiero
dell’oraziana “fons bandusiae”
per il miracolo dei tramonti sul Vulture
dagli oracoli d’una nuova mitologia
uomini folli che bevvero
l’acqua che ora scivola
ai piedi di Cerere
dalle surreali vocazioni all’iperbole
all’apostasia d’ogni atto e dogma
tutto qui mi germinò e si evolse
nella parabola seduttiva di millenni
dal riso di Pitagora alla fiera
malinconia di despoti geni della parola
del colore e del segno
stimmate roventi sul segnale delle stelle
Genzano ha umori veloci come nuvole
che attendono impenitenti narcisi
di specchiarsi in un chiaro lago
dove indovineranno nel fondale
antiche masserie ed una folla
d’entità che ci giocano ancora
vecchi trucchi di feroci aforismi
mentre vincono a carte con il diavolo
ricordo ancora l’ultima tornata
“passo” disse spirando don Antonio
con un poker in mano già servito
lo posero gli amici nella terra
con un asso
e d’allora giocarono col morto
ora l’ultimo vecchio mi confida
l’ansia di andarsene
perché lassù ci giocavano col vivo
così si capovolsero fortune
tra sghignazzi degli uomini e anatemi
di madri defraudate
qui savonaroliani preti fuggirono
con amanti perdute
i cafoni si armarono di zappe
all’ennesimo furto di dipinti e codici
miniati pronti ad avidi mercanti
e disperando il raccolto
chiusero le notti in segreti riti pagani
quando un sole scoprì decapitata
la Cerere romana
ora seguo il passo dei nibbi
su tutti gli occhi che chiusi
del mio sangue
sulla fredda collina a ognuno ho dato
il nome e il segno d’un colore
mosaico d’amore per questa terra
*
l’occhio rosone della Cattedrale
provocazione limpida di luce
elevata nella sua aria di vetro
mi difronta in un agosto sbalordito
di mantrici silenzi
i puri vertici delle tre navi in fuga
all’abbraccio della foresta di capriate
respirano canti gregoriani di clarisse
spossata a una fuga bachiana
la tastiera d’organo d’un geniale fanciullo
la parola ch’è maschera ed illusa storia
è qui traslata in suono ed in preghiera
di levigata architettura
e pantomime occhicapellivento
delle giovani donne che si danzano
su trascendenze di secoli
Acheruntia grumo stellare di pietra
alta isola di sopori d’aquila
vive umbratili intrighi di sepolcri
e domìni corrotti dal potere
della sua impervia solitudine
Akere greca per antico gene
municipium ad Heracle dicata
l’oraziana “nidum celsae Acheruntiae”
dorme Claudio Marcello e i suoi millenni
al “tumulo” falsa collina di palmenti
longobarda e signora d’orientali
inorizzonti terre del Gastaldo
in un amen di secoli trafitta
da tetre cupidigie
Sicone il saggio e lama di congiure
contea greco-ortodossa di Bisanzio
il Guiscardo di Puglia e il Claunicense
Arnaldo abate di architetti
martire estremo d’Africa il suo Canio
onorato per scherzo dagli archetipi
nel duro bronzo dell’Apostata
Acheruntia grumo stellare di pietra
uomini circonvessi su stalattiti
di cristalli amari come i suoi sismi
e la bellezza
questa vituperata essenza oggi comprata
al mercato del nulla
qui ricomposta per follia di dio
*
nel mito adolescente
Potenza era montagna sacra
ibetano monastero nello smeraldo
alto dei boschi e l’abbagliante inverno
di ghiaccio e il fosforo medianico
in notti avide di amori proibiti
al liceo scuola di abiure
Levi varcato Eboli tornava per lezioni
sull’analfabetismo
poeti immersi in un bucolico-tribale
adoranti sciantose di Napoli allo Stabile
vecchi padri tornati in papillon
nelle avite villemasserie
scampati ai crematori in racconti anniluce
in attesa di etère di lusso
nel casino di fronte al seminario
le madri grandiscialli chador neri
ferita perenne sulle labbra
occhi abissi di luce
sorrisi d’un’ancestrale tristezza
la figlia del vinaio
virtuale amante di tutti
ci ubriacava d’aglianico e Rimbaud
danzando sui tavoli
le cosce immense di perdizioni
la papessa Beatrice
bruciava i suoi versi e la nostra giovinezza
sugli Schopin del piano di Gavioli
la grande casa d’orge filosofiche
e teatro di Lorca
nulla era tutto e tutto nulla
le fughe dal collegio
su trabeazioni di gronde
mi consegnarono ai notturni segreti
in grotte di politica e poesia
disincarnati amplessi con un “mentre”
senza inizio né fine
“il quaderno blu” di Wittgennstein
Majakovskij e Pavese
“l’essere e il tempo” tradotto in anteprima
il gregoriano cadenzato
sul mio inno a Lucifero
le aritmie di Gershwin e Stravinskij
Baudelaire letto ai filari
di pioppi del dio fiume
il “quaderno” di Klee come puntuale tazebao
per la mostra all’ “Orazio” liceo infido
che mi espulse a retorica del niente
si sciava a Rifreddo su racchette di canne
e ci guatava qualche lupo nella fresca
neve di marzo precipitandoci poi a valle
a dissolverci
gli impossibili amori con la “rossa”
venuta dalle Marche a masturbarci il cuore
via Pretoria serpente ludico di attori
i murales di notte che svegliarono
piazza Sedile ai disincanti amari
della fede prostituita a un partito
e tra isterie curiali e polizia
deviò una processione nel percorso
e la sua mistica camaleontica
Potenza si consumò la verginità
con noi nel suo silenzio primigenio
i piedi gonfi d’una lussureggiante
follia creativa mai tornata
i piedi gonfi d’eternità bagnati
nelle incontaminate valli del Basento
amplessi d’oro sciamati lontano
tra i templi della Magna Grecia
quando tornai dal mondo era una selva
osceni picchi di cemento e larve
artrosi delirante sul suo ventre
ma la spirale Musumeci a suo riscatto
e l’amo sempre questa donna altera
divenuta maitresse di insani amori
il sisma che la voleva a valle
s’incuneò invece nel suo cuore fragile
di chiese e vie
sgranandone i portali come petali
a un misterico vento
l’asimmetria dell’oggi ha un’eleganza
frenetica un miracolo
che i silenti lucani si perpetuano
alle stragi della terra
e guardano al settiforme Vulture
sentendo che le sue viscere dormienti
sono di lava e sangue
*
se vuoi amico dei miei passi intendere
cos’è folgorazione estrema
all’inusuale maestà di questa terra
penetra in essa dalle vie brutali
che lasciando i massicci degli Alburni
vanno ai picchi di Vietri
attraversando l’Ofanto alle valli
del Melandro e del Marmo
tra Pierfaone a distanza e la Sellata
seguendo il corso del Basento impervio
lo spettacolo s’eleva tra Brindisi
indovinata alta alla foresta del Grancia
Vaglio sul monte Cenopara e il Santuario
di Mefitis Utiana dea delle acque
Albano tra la flora degli immani
boschi di Capolicchio
sino a Trivigno
dalle rupestri cavee
che difrontano il difforme e acuto spazio
delle lucane dolomiti
Pietrapertosa saracina-normanna
Castelmezzano roccaforte longobarda
dalle Murge inviolabili
scendendo nella valle del Camastra
l’illumino di Anzi l’Anxia originaria
Laurenzana circoncisa dal castello
tra i bianchi abeti della sua Riserva
alle pendici del mone Volturino
ricca di pascoli è Calvello tra gli altari
delle massicce mura feudatarie e Santa
Maria del Piano dai romanici portali
che guardano il fiabesco irto Santuario
dell’alto monte Saracino
l’angioina Corleto Perticara
razza di liberali e rivoluzionari
patria di Carmine Senise e dei Lacava
ogni contrada ha una sua déspota corona
radici fonde germinate in una rara
intellighentia della terra
che si trasmuta in abbrivio d’un fiore
in coscienza d’una roccia
i monti sono specchio delle nuvole
mai stanche delle emozioni del vento
e navigano i sensi sempre in fuga
scoprendosi nell’era del globale
che nelle nostre mani
urne preziose di millenni
si celano incommensurabili tesori
*
nel cinquanta a Matera la prima scesa
agli inferi babelica torre rovesciata
il cielo puro a fondamenta
e il cono buio al centro della terra
tracimando gli occhi in un’eternità
di pietre uomini e bestie stalagmiti
evaporati da neolitici umori
sedimenti di spazi avari e l’agrodolce
spurgo di asine e sperma di silenzi
i Sassi cratere di luna
incubo d’un meteorite impazzito
ed incubato da contadini fertili di sole
seminati dalla sporca coda d’una cometa
che ha attraversato stelle
quanti i pensieri
ricordo mi sovvenne la visione
di una Angkor cambogiana
implosa nei suoi templi aguzzi
e lasciati alla foresta
dal buddismo Hinayana che cercava
lo spazio interno della sua tensione
dopo vistose apparenze dei suoi re
ed il riscontro spirituale di quei buddha
erano qui le cripte basiliane
e gli spechi delle rupestri chiese
sotterranee immersioni
di religio e coscienza
poi il miracolo della lucida cavea
vicoli-intrighi di storie levigate
il calcareo abbaglio del restauro
di palazzi e di chiese al varco alto
dell’intatto cratere
dove un continuum spazio-tempo si elide
nella onirica dismisura della luce
qui i volti hanno assonanze coi lucani
quanto un rude spartano
dai socratici discetti
le lunari gravine si allungano
fiordi di ombre ai porti del sapere
come una Fiorenza cinquecento coltivava
segrete polluzioni dei suoi geni
la meteora impazzita che si cela
nel ventre occulto dei suoi paradossi
portava nelle trame
imponderabili del cosmo
semi di uccelli rari che ora volano
su dimensioni d’un futuro
ancora acerbo ma patria degli déi
lava che dal suo cuore antico
si rapprende in semine feconde
e lasciando
la fossile foresta
di pinnacoli e logge tra la “Vaglia”
e grotte del Pipistrello
tra i coppi adunchi
incastonati al tufo
sale il fischio del falchetto grillaio
a gioia di questa sfinge
*
la prima verde stagione scoprì le albe
dalla torre normanna di Tricarico
dove lo zio musicista mi iniziava
alle prime matematiche dei suoni
in sintonia col cosmo regolando i sogni
essenza prima del sangue
della storia e creazione
la nonna Filomena aveva rapide visioni
carezzate dai capellineve in trecce scolpite
il gran presule cieco Mosè di mille anni
mi accoglieva nel giardino di corbezzoli seicento
per racconti lucidi infiniti alla Shahrazade
l’Arabata scale babeliche e misfatti
di streghe nei preistorici cunicoli
le donne saracine immaginavo
inventassero ancora storie arcaiche
per i mariti-principi ferini
tra gli scogli di pietra degradanti
al solco nero dei torrenti
la soffitta magica porta
d’abbaglio musicale via lattea
d’ottoni e l’aquila imperante
d’un’arpa prediluviano sigillo
canne d’organo dismesse si ergevano
a tuonare il mio Sebastian
donne in fiore prustiane sui cerchi
immensi dove fiorivano corredi
battaglie tra la “piazza” e “arabatani”
con pitali ad elmetto per le fionde
Fonti nell’urna dei miracoli verdi
tra le arcaiche visite
agli Aragiusto zie gozzoniane
e imprese laide di fascisti al ricino
zio Lombardi trasse le mie mani
di fanciullo a convegni segreti di esiliati
e resistenza a esaudirmi lezioni libertarie
mentre le svastiche fuggivano
orrore di cadenze nella notte
sospesa ad un cannone
tra l’Arco e l’Episcopio
Scotellaro usciva da un uscio sghembo
sorriso contadino-intellettuale
acuto nei girasoli della politica
a cantare la civiltà morente dei cafoni
nelle navi possenti a S. Chiara
spiavamo fragili fulgori di educande
Tricarico torre che domina
leggende d’uomini e di pietre
non ho mai inteso così intensa
la forza
come ai piedi del suo cielo
*
Carlo Levi nel calvario di Gagliano
la romana Predium Alianum
ebbe solo colori pei suoi duri
amati contadini d’ocra-rughe dei calanghi
scialli neri come notti insonni
bimbi come lo scavo ambiguo
che i sogni sottraggono alle attese
case nel Borgo Antico dai mattoni
crudi d’argilla
visi allumati dal respiro arguto
della terra che ora torna nella “frase”
carnascialesca a ludibrio dei nativi
dopo molte stagioni quasi cieco
scoprii nelle romani sere al suo rifugio
pastelli d’un erboreo astratto
stupefacenti nell’impasto docile
fresco e severo dei muschi
odorati in un’antica terra
che i girasoli di Van Gogh mi parvero
impagliati al confronto
in una luce scomoda e teatrale
e mi chiedeva conto della sua Lucania
eludendosi il termine del giorno
e del suo tempo
come anelasse ritrovarla
e riunirsi al suo grembo povero
umido di ricco sale
*
Grumentum attraversata dall’Herculea
che da Venosa corre ad Heraclea
dall’Appia e la Popilia in un coacervo
di etnie che ora dormono nei rudi
tra l’Agri e lo Sciaùra
cintata da sei porte
alla Domus collegio di liberti
si difronta il Teatro e il Capitolium
il Foro e i templi degli dei
e il periferico vasto anfiteatro
dove una folla di romani
e alteri figli della Magna Grecia
s’immersero in quest’angolo lucano
alle scene di Lisistrata e le Rane
aristofanee
castrum Montis Murri
raccolse la superstite genìa
della città distrutta
ava di Leonardo Sinisgalli
*
quando un anonimo Lantrec dominò
il feudo di Gian Michele Morra
costringendolo in Francia e relegando
i figli nel castello
si compì il perverso ciclo-fama
della poetessa di Valsinni
“i fieri assalti di crudel fortuna
scrivo piangendo la mia verde etate
ma che in sì vili orride contrade
spendo il mio tempo senza loda alcuna”
se Shakespeare dalle brume di Strafford
avesse saputo quel dolore
avremmo letto una tragedia eccelsa
la dolce enigmatica Isabella
scannata da lupi fratricidi col suo Diego
si chiede ancora tra gli arazzi
divelti dalla furia e le bestemmie
urlate nel suo ventre
perché
quella notte occupò tanto abominio
perché il cuore si vìoli il confino
che lo separa dall’oscuro baratro
della pazzia
e i livori dell’ira
per proteggere onori dissennati
*
si insinuano i percorsi dell’Herculea
sulle sponde del Sinni e del basso Agri
custodi dell’Anglona solitaria
che guarda Tursi fondata dai Goti
la cattedrale dai litici rilievi
abbandonata al fuoco
ha contorni squillanti di religio
come la basiliana chiesa in “Arabatana”
la poesia dialettale qui ebbe fama
da Albino Pierro suo nativo
*
emblema fertile dell’infinita
libertà lucana avverso i despoti
il sacrificio dei cinquantacinque
giovani viggianesi ostaggi e vittime
nell’ottocento delle faide ad infamia
di quei francesi stessa matrice dei tedeschi
alle romane ardeatine
il contraltare alla barbarie è un inno
alla poesia di questa stirpe musica
nella lignea fattura di sublimi arpe
e stradivari lucani
su sentieri scoscesi di “poggi”
teste adorne di “cente” si svettano
in drammatiche alture al Santuario
della Madonna Nera al Sacro Monte
mito di fede e di leggende
*
e sul Monte Sirino il Locus Neruli
ha memorie d’un lago d’acque nere
ma si specchia nel limpido Laudèmio
affrancata dal suo Marsicano
alla feudale avida stretta
si arrocca la spirale vecchia
tra il castello e S. Nicola
ove dorme Monna Lisa di Leonardo
in un sepolcro mai trovato
tra monasteri e chiese
affrescate dai Cascino si sazia
l’austera sua misura tra le vette
a suo diaframma col gigante Pollino
*
Maratea
vergine dea che bagna
il suo acerbo corpo in liquidi
sogni di cobalto
occhi alieni dei boschi
intoccati dai desideri
che affollano la sua bellezza
stupori di fanciulla per i silenzi
e intrighi medievali
per i vascelli che la visitano
livide ombre di falsi ulissi
alla ricerca vana di stupri
l’imprendibile dea ha ancora varchi
col cielo come la mia Lucania
abitata da antichi geni
di civiltà assolute
forse reiette
ma che ci annodano ancora i capelli
*
la piana che si perde all’arenile
di Metaponto ed Heraclea dove il gran duce
dell’Epiro soggiogò i romani
è ora assetto limpido
agli antichi acquitrini dei due fiumi
lontano si rinverde l’opulenza
del sito greco e la sua gloria
in Crucinia si espande la Necropoli
i resti del santuario a Apollo Licio
e l’attigua Agorà che specchia i templi
d’Hera di Apollo Atene ed Afrodite
risalenti alla nascita di Socrate
Metapontum
distrutta Siris con Crotone e Sibari
si occupò questo sito
segnandosi il confino con il tempio
di doriche colonne dall’abaco severo
Tavole Palatine
confinando i suoi porti con le spiagge
della sua Grecia
negli anni di Pericle al potere
mentre si ergeva in Atene il Partenone
quando Erotodo scrisse la sua “storia”
quando muore Pitagora e s’intesero
le tragedie di Sofocle ed Euripide
*
ma l’incipit e l’explicit
di molte vite qui diffratte
nella loro parabola di folli
avrebbero dettato un’orgia di scrittura
a Borges e Pessoa e ai suoi eteronimi
storie in questa terra di mirabolanti
ed ostiche culture
giocatori dell’essere
sbertucciati rapsodi di pazzia
badesse fattucchiere preti e duci
streghe e briganti in amori picareschi
culmine dello squallore
è una vita senza sogni
non andare lontano per scoprire
dove i sapienti sognando per il popolo
allestivano spettacoli
donde le scaturigini grandi del teatro
so di sciamani-stregoni in questa terra
che avvertiti da un Dionisio segreto
sognavano a mercede con puntuali responsi
le nostre lande in tempi di anagogici
fruizioni dell’esistere
dal neolitico ai greci ai medievali
architetti di dio
germogliarono stirpi di sibille
mai spentisi neppure all’apparire
dello spietato illuminismo
d’una ratio ed estetica ostinati
all’assalto della grande intuizione
ch’è fomento dell’arte e della vita
il più grande fu un nomade alla corte
di Costanza
che lo cedètte a suo figlio Federico
sovrano troppo enfatico di sogni
da tenere per se solo l’astrologo
e lasciando alla corte lo sciamano
amico di Roffredo da Viterbo
giurista illustre e amato
da Pier delle Vigne
si dice abbia concesso a Federico
l’apporto visivo di suo figlio Enzo
dalle prigioni bolognesi
tessendo fili enigmatici e fedeli
al suo sovrano predisse la sortita
in Terrasanta con Al-Kamil d’Egitto
e la restituzione di Gerusalemme
ma vide anche la sconfitta a Parma
che solo un altro abbaglio
della sua veggenza gli salvò la testa
quando in Puglia una dissenteria banale
morì il suo re abbandonò quegli orizzonti
svanendo nelle nebbie del suo mistero
*
l’uomo che parlava con le nuvole
gran genio spappolato
da opere furenti “cause célébre”
della New York anni venti
gran dandy ed inventore di audaci stili
per quell’epoca di polverosa morale
seducente e spregiudico nevrotico
fuggito dagli States per accascio
di fortuna e suicidio di donne
tornato alla Lucania ai bordi estremi
d’un bosco eremita della mente
bruciò ogni residuo progetto
per un’infanzia nuova
componendosi storie di sublime
aberrazione parlando con le nuvole
sue univoche amanti e ispiratrici
in una sorta di magniloquente
lingua atta a rovinose beffe
e lazzi amari
di un’immane cultura osava tresche
ai classici sbriciolandone il gran senso
a suo modo veggente ordì cadute
puntualmente avverate di potenti
la masnada-discepoli fu tanta
da invocare esorcismi dalla Curia
vi mandarono un santo pellegrino
si dice che quel frate fu rapito
tanto da una sua favola sul diavolo
che si ridicola ancora in paradiso
dove volò per quell’ictus di risate
la sua storia più sapida?
il pelo d’una vergine racchiuso
in una teca d’oro che scatena
barbare faide tra due borghi
lo trovarono morto con la scritta
“non molestatemi
devo ancora pensare”
*
fantasma di Abufina che attende Selepino
nomi da Flauto Magico di Mozart
e “regina della notte” fu una nenia
gorgheggiata a ogni mestruo da una matta
voce e fattura d’angelo
con rigoroso elenco dei suoi amanti
immaginari
e gran rivolta delle maritate
che simularono un segreto sabba
per decapitarla
ma il suo silenzio allo spavento
fu più atroce di quella voce
il paese si spense con ancor più dubbi
in una coltre amara del nulla
perché era finito il ciclo del sognare
*
la madre in gravidanza sognò affreschi
di Paolo Uccello dove il cavaliere
era un nano
lo partorì e l’onirica impudenza
fiorì una vita di spietate farse
la madre si spinse in lande analfabete
e lo sposò con una alta idiota
e una lusinga di cospicue doti
la nipote fu nana d’una rara
bruttezza e intelligenza
che dedicò il suo vivere allo studio
di Paolo Uccello
*
lo stesso vento che carezzava Federico
e le volute dei suoi falconi
e liberava i sogni della Morra
bizzarra nuvole
screzia assurdi tramonti
di sguaiato eros
inorizzonta paesi alti che si fondono
con le costellazioni
quando luci sciamano la notte in attesa
di comete-astronavi d’incenso
scivola agli occhi un brivido planante
smisurate ali sul pino loricato
che inchina le sue cime
dove l’aquila reale rapina sul Pollino
everest di boschi e porta del cielo
*
la mia nave
s’è adagiata un momento dove nacqui
spazi incorrotti dove ancora vivono
sogni esclusi da ruvide stagioni
in eternità smarrita in rituali d’attesa
le mie donne hanno negli occhi il seme
fiero d’una notte coi briganti
amanti enigmatiche dal sorriso triste
per orgasmi incompiuti con la storia
hanno gli uomini il disincanto al lifting
di politici ed al globale
perfido apoptòsi delle menti
e la lentezza che sola ospita Sophia
contro gli eroi del sistema
*
forse gli uomini che salveranno il mondo
come scriveva Borges
gli uni giustificando il male subìto
gli altri preferendo non aver ragione
sono qui a giocare a scacchi
sapendo che lo checkmate sarà loro
*
nato in questa terra di muschi
tornato ad annusarla dopo innumeri soli
l’ho cantata per tradurla dai suoi miti
a stellari segni non più tribali
gioco di parole cadute puri cristalli
nei suoi laghi di giada
verranno altri occhi a ripescarle
contadini al cellulare clonati da Levi
masticano ancora l’ultima annata di aglianico
nella fascinazione ancora di briganti
voci stridule di donne scivolìo lento
nel burka dei ricordi
infibulazioni ataviche del cuore
*
nei vicoli lucani il vento ha voce
del cuculo che udiva il mio richiamo
nella foresta di querce sul mare
dove ali misteriche custodivano il pentagramma
della mia follia e di tutti gli déi
scrigno segreto venduto per trenta denari
da un mercimonio di donne avare di sogni
da queste verdi vertigini odo il mare
i piedi ancora lambiti da inesauste
meduse danzanti nel fosforo delle stelle
finchè i gabbiani non divorano all’alba
i capelli per aquiloni di favole
*
dopo mezzo secolo nei portici
di Potenza siedo al posto che al liceo
in ampio cerchio odo le voci lontane
di Carlo Levi che respirava
l’analfabetismo lucano anni cinquanta
Gavioli anfitrione nei suoi spazi
dicitore del primo teatro di Lorca
Beatrice fulva dea di versi
ed enigmi che irrompeva altera
nella nostra giovinezza
Valenza uno tsumani di politica
Morsillo che ci costruiva il “fedone”
sui labirinti di Nietzshe e Wittgenstein
magma violento di un vulcano giovane
subito spentosi in una grigia cenere
sarebbero venuti altri sismi
a scuotere una civiltà dimenticata
*
vedo l’ultimo cerchio di vecchi
disquisenti su un naufragio
intellettuali stanchi di memorie
disorientati al sacro soglio
dell’idiozia politica
filosofemi del niente in attesa di lasciare
spaventati
un testimone al fulgore della giovinezza
che avanza in una nuova stagione
di sogni
*
sto cercando in questo angolo di monti
disperatamente
la risposta ad una nuova cultura
ho visto il cerchio omologante
stringersi sino a Padula e Castel del Monte
con l’arroganza del visuale d’oggi
la poesia relegata a un dialetto
di paesane sagre e di abbuffate
in folk di abusate danze tribali
e c’è un humus che invece
sento crescere oltre
*
ma questa storia
non lasciamola ancorata al suo sisma
e al suo nuovo diluvio di scale
le città hanno segni indelebili e ascosi
nelle pieghe e piaghe del tempo
e nomi incisi di chi vollero scavarle
ed elevarle lanciando ponti tra gli uomini
l’antico ricordo d’un picco monastero tibetano
è ora selva di un fascino astruso
vorrei sentirla unica nel suo humus
di montagna sacra e riaprire
in queste vertigini un nuovo magma
che la esponga ai venti
d’una sottile bellezza
*
vorrei che Grigory Perelman
solutore della congettura di Poincaré
e nemico di premi prestigiosi
venisse dai boschi della sua Pietroburgo
a cercar funghi nei nostri boschi
nel mondo drogato di celebrità
questa terra assorta e ancora vergine
ha bisogno di talenti puri
come Orazio e Gesualdo
*
cercavo l’ignoto su trapezi di luce
funambolo di orizzonti supremi
meteore insultavano la mia danza
avventandosi ai piedi d’un’innocenza
conquistata in incessanti rinascite
sugli impervi calanchi origini del mondo
fili invisibili di vita aliena attraversano
l’antico sangue della mia Lucania
intessendo la voce della poesia
non ci fosse questa voce
che per il mondo è inutile
collasserebbe l’universo